Accidenti. Sono appena andata a letto ed è già ora di alzarsi. Meno male che all’ultimo momento il mio amico scrittore si è offerto di accompagnarmi all’aeroporto: check in ore 5.00! Fuori è ancora buio e nonostante sia il 28 Luglio un brivido umido mi mette a disagio. La verità è che sono preoccupata. Rientrata da un’esperienza di volontariato di sei settimane in Brasile dovrei spaccare il mondo, no?
No.
Mi viene un po’ da piangere.
Matteo mi guarda con ammirazione e scambia il mio timore con malumore da mancanza di riposo. Ha grandi progetti per quando torno e mi vuole nella sua compagnia teatrale. Ne sono lusingata e riesco a distrarmi ma ecco che mi abbraccia con gli auguri e le raccomandazioni del caso… ed è già via. Mi fa un po’ ridere con la sua utilitaria scassata e scoppiettante (si: che stamattina ti ha salvato il culo, però).
Hey ma questa è la parte superficatantoagognatanuova del terzo aeroporto d’Italia! Mi vesto da donna vissuta per l’occasione e varco la soglia di questo gigante lattiginoso con l’aria di chi viaggia sempre e da sempre: disinvolta e scazzata. Non riesco a togliermi dalla testa tutto il casino del visto per il Vietnam però. Già: la viaggiatrice consumata se ne va in Vietnam senza visto, ma si può??!! L’alternativa era quella di non partire, perdere il biglietto e avendo quasi mille Euro da spendere aspettare almeno tre settimane prima di poterci riprovare. Ma no! Eppoi ieri il teologo- filosofo-presidente della onlus coinvolta in progetti nei paesi in via di sviluppo mi ha assicurato che ora lo fanno all’arrivo perché “si stanno aprendo al turismo”. Sarà.
Con questa tremula speranza mi avvicino al banco dell’accettazione (sì, si può dire anche in italiano) dove un ragazzino glabro e incravattato mi accoglie serio e compito cercando di non far trasparire lo stato comatoso in cui versa.
E comincia l’odissea del visto. Il visto? Epperchémmai? Ora lo fanno all’arrivo: sa, si stanno aprendo al turismo. Cerco di mantenere calma e cortesia manifestando volutamente una certa saccenza in merito. L’assistente di terra tentenna, vorrebbe chiedere conferma ma a quell’ora di domenica non c’è nessuno e imbarca il mio superzaino con malcelata titubanza.
Andata. Almeno il momento. Mi stupisco della lucida follia con cui affronto quest’incognita mentre lascio andare lo sguardo al minestrone di esseri umani che lambisce le candide sale delle partenze internazionali. Ricordano certi film tragicomici dove il protagonista arriva al cospetto di Dio attraverso abbacinanti camere e corridoi. Mi accorgo di sorridere mentre realizzo la rapidità con cui il mio cervello schizza da A a Z rimbalzando in frenetiche quanto improbabili associazioni di idee.
E giunta l’ora di partire e passando davanti al duty-free penso compiaciuta che all’arrivo della prima tappa, imbarcandomi per un volo intercontinentale, avrò diritto all’acquisto di 2 stecche di sigarette, che da fumatrice della domenica quale sono mi dureranno una vita!
Altro aeroporto europeo, altro esempio di sofisticata tecnologia applicata, altra coda da soffrire. Mi sembra di andare al patibolo. Mai i check in degli aeroporti con annesso assistente di terra mi avevano scatenato tante emozioni. E se non m’imbarcano? E se mi rispediscono a casa? Guadagno la meta a passi piccoli e gambe pesanti, malessere d’aria condizionata e mancanza di sonno. Ci siamo.
Neanche una piega.
Non una piega, anzi mi sorride il ragazzone d’oltralpe, mentre l’adrenalina scende vertiginosamente sotto i piedi e attingo due parole dal mio tedesco arrugginito. Da zero a dieci in pochi secondi, eccomi nuovamente padrona di me stessa. Mi sento sollevata e quasi mi torna la gioiosa eccitazione che precede ogni viaggio, quando ti senti cittadino del mondo solo perché di trovi in un aeroporto, come in una stazione ferroviaria, o nel più imbucato degli autogrill.
Comincio a gironzolare indugiando sulle vetrine, cercando di indovinare la provenienza di quel distinto uomo d’affari o di quella donnina tonda carica di sacchetti. Già mi annoio, già mi sembra di perdere tempo, devo partire, partire. Questa è la sensazione più appagante di quando si è in viaggio: l’insofferenza alla “banalità”, la consapevolezza un po’ snob di essere diversi, di avere qualcosa di distinto in quanto viaggiatori. Ci si sente totalmente estranei alla “normalità” dei turisti chiassosi e dei bambini sovraeccitati che anzi, ci infastidisce.
Una coppia di grassi e rubicondi novelli sposi mitteleuropei mi distoglie dai pensieri (ma conferma il mio ragionamento) e mi ricorda che devo munirmi di foto per la richiesta del visto. In abito da cerimonia e amici al seguito cercano di infilarsi nella cabina delle fototessere. Pur essendo buffi e goffi nelle dimensioni e nei movimenti riescono a tirar fuori la romantica donnina che c’è in me e che certe capriole mentali avevano messo da parte. Come nei film e mai nella vita, la coppia just married abbandona gli invitati e, senza cambiarsi d’abito, parte per la luna di miele con un monopoliano “senza passare dal via”. Avverto un debole richiamo, una sentore di casa che arriva da lontano ma non riesce ad avvicinarsi poi tanto. Come la lucina di una torcia che si affievolisce sperando che qualcuno cambi le batterie. Persone che ho lasciato. Ma un viaggiatore non può avere legami, un viaggiatore agisce in solitaria. Via, via.
L’allegra combriccola si allontana ed è il mio turno per le foto, che scelgo in bianco e nero perché mi piace fare il bastian contrario ma anche perché costa meno. Compro la scorta di sigarette e questo mi concede cinque minuti di felicità. L’attesa sembra interminabile. Mi rendo conto di attendere le dodici ore di volo e film in lingua originale quasi con impazienza: non vedo l’ora di scrollarmi di dosso questa sensazione di accadimento imminente.
L’aereo è stracarico di orientali e mi distraggo nel tentativo di indovinare il luogo d’origine di queste persone apparentemente così simili tra loro.
La divisa delle hostess della compagnia di bandiera malese consiste nel tipico costume femminile dai batik sgargianti e la casta fattura. Servizievoli e sorridenti, queste fanciulle appaiono molto lontane dal modello in carriera della donna occidentale. E’ inutile: l’ansia da visto m’impedisce di distrarmi e di dormire così, uno dopo l’altro, mi sorbisco tutti i film stranieri (anche quelli scadenti) che questo bestione alato trasmette dai mini schermi incastonati nel retro dello schienale di ogni poltrona. In procinto di atterrare a Kuala Lumpur -dove transiterò prima dell’imbarco per il Vietnam- scorgo i contorni dello splendido aeroporto della capitale malese che si staglia all’orizzonte: mi ricorda quell’edificio di Sydney eletto a simbolo dell’Australia e per un secondo sono già proiettata verso un’altra destinazione, un altro viaggio, chissà.
L’aria condizionata è sparata al massimo e mi rendo conto che non annuso aria “aperta” da ormai venti ore. Insomma, giusto il tempo per beccarsi un raffreddore, fare la pipì, controllare la posta elettronica ed è ora di partire. Rabbocco l’ormai da tempo in riserva serbatoio di speranza man mano che Hanoi si avvicina e assaporo le sensazioni che i cappelli a cono e il fruscio delle sete degli abiti mi provocano. A parte qualche temerario turista francese e inglese lo scenario umano è composto da vietnamiti che appena mi vedono mi guardano con una sorta di incuriosito rispetto: una donna occidentale che viaggia sola in un paese non proprio turistico! Ancora una volta un impercettibile sorriso tradisce la mia vanità di viaggiatore in solitaria ma non vedo l’ora che il tempo e la delicatezza mutino quell’incuriosita deferenza in curiosità e basta.
<<Dai che va bene, dai che va bene, dai che va>>. In fila al controllo passaporti del piccolo e sciatto aeroporto della capitale vietnamita ripeto questa frase come ipnotizzata da un mantra hindu. Osservo il poliziotto premeditando un atteggiamento da adottare. Ci siamo.
“But…here there’s no visa. Where’s the visa?” mi chiede l’omino basso e magro in uno stentato inglese. Gli spiego che non ce l’ho ma che lo vorrei fare adesso. Non si prende neanche il disturbo di rispondermi che non funziona così e con un gesto imperioso fa chiamare due colleghi che mi scortano in quello che sembra l’ufficio della polizia di stato. Ancora convinta che ci sia una soluzione e con tutta la cortesia e l’umiltà di cui sono capace (perché sono una donna e siamo in oriente) racconto a tutti gli uomini di quell’ufficio che sono nel loro paese per lavorare in un progetto umanitario finanziato anche dal mio paese e che per ragioni di tempo non sono riuscita ad avere il visto d’ingresso, e ancora che il capo progetto mi ha assicurato che l’avrei potuto richiedere all’arrivo in aeroporto. Dapprima mi ascoltano e mi rispondono che l’unica maniera sarebbe quella di avere una lettera d’invito del governo vietnamita – o chi per lui – poi mi ignorano completamente: chi fuma, chi ridacchia, chi si fa i fatti propri, chi va a chiamare altri colleghi. Nauseati dagli atteggiamenti despoti di colonizzatori e invasori che nei secoli si sono succeduti, l’insolita situazione mattutina deve aver infuso quel calmo benessere e quel sano buonumore che caratterizza il trionfo dei giusti, il riscatto degli oppressi.
Verdetto: espulsione e rimpatrio. Mi sequestrano il passaporto e il biglietto aereo; neanche mi permettono di fare una telefonata. Rassegnata chiedo di poter almeno recuperare il mio bagaglio: fanno le smorfie ma accettano. Scortata sino all’imbarco per Kuala Lumpur mi consegnano nelle mani di una hostess che custodirà i miei documenti per affidarli alla polizia di stato malese. Mi fanno sedere in business class non per qualche occhio di riguardo ma perché i clandestini non si devono mescolare agli altri passeggeri. Mi pare di essere in un quadro surrealista, altro che situazione kafkiana: devo sembrare un automa.
Alla volta dell’aeroporto malese sono la prima a scendere ma devo attendere in una saletta a parte che arrivi la polizia a prelevarmi. Lo scoramento è tale da inibire qualsiasi tipo di reazione. Un omone pasciuto e olivastro prende in consegna i miei documenti e la mia stanca persona e mi accompagna dal capo canticchiando ‘o sole mio!!! Al comando il campionario umano è dei più lugubri, e posso immaginare – solo un po’ – come debbano sentirsi profughi e clandestini intercettati dalla guardia di finanza al largo delle nostre coste. Al mio turno racconto semplicemente la verità e suggerisco che non mi imbarchino per l’Europa ma che mi permettano di entrare in Malesia –dove non serve il visto – giusto il tempo di andare all’ambasciata vietnamita e procurarmene uno. Suggerimento condiviso.
“Non esiste opportunità migliore per […] affrontare le paure latenti e mettere alla prova i lati nascosti della vostra personalità. […] E in più, più di ogni altra cosa, avvertirete l’eccitante sensazione di poter andare in qualsiasi direzione – letteralmente e metaforicamente- in qualsiasi momento[…]”.*
E’ sera ormai, il cielo buio e la temperatura tropicale sono quelle di un altro emisfero. Non so nulla di questo paese e non so da che parte cominciare. Mi sarei fermata a KL per 12 giorni cavandomela benissimo e pure innamorandomi ma in quel momento non lo sapevo. Mi prendo le ginocchia tra le braccia e vi chino il capo. Piango in silenzio. Finalmente.
* Da “Vagabonding. L’arte di girare il mondo.” di Rolf Potts.